San Pietroburgo può essere considerata protagonista del romanzo di Dostoevskij “Le Notti Bianche” al pari dell’anonimo narratore e della ragazza di cui si innamora, Nasten’ka: tra sogno e realtà, la città viene descritta come parte fondamentale nella vita del narratore, infatti, ogni sua singola emozione o sensazione provata si riversa sui vari aspetti della città. Vi è, quindi, una sorta di empatia tra il ragazzo e gli elementi della San Pietroburgo di metà Ottocento, una San Pietroburgo che, durante le notti bianche, è invasa dalla luce anche a tarda ora ( poiché vede tramontare il sole dopo le 22 ) e che, per il narratore – eterno
sognatore – è, con le sue mille e più facce, l’unica persona cara e l’unica con cui ha un rapporto di conoscenza e affetto reciproco.
Il protagonista vive a San Pietroburgo da otto anni e, prima delle quattro notti e del Mattino, non è riuscito a fare nessuna conoscenza se non quella con la città stessa; il ragazzo conosce ogni angolo di San Pietroburgo e si sente ancora più vicino a essa ora che quasi tutti i suoi abitanti l’hanno abbandonata per trasferirsi in campagna, come se lui non avesse mai tradito lei e lei non avesse mai tradito lui. Ogni giorno, il sognatore va sul Nevskij, strada principale della città, passeggia tra i giardini e ammira il canale della
Fontanka, entrando in contatto sia con la parte più razionale di San Pietroburgo, fatta di vie, larghe prospettive, antichi palazzi, il lungofiume, case in legno da condividere con altri inquilini, appartamenti soffocanti e soffitte buie, sia con la parte più chimerica della stessa, fatta di case che gli corrono incontro e le cui finestre gli parlano, di case ormai intime amiche, di altre che gli confidano le loro paure e le loro gioie, di altre ancora che subiscono quei cambiamenti che il tempo porta in modo inevitabile, dell’eleganza di alcune vie, dell’allegria contagiosa di altre, della calda accoglienza della campagna appena fuori le porte e soprattutto di angoli in cui non brilla lo stesso sole del resto del mondo, bensì un sole diverso, un sole nato appositamente per quegli angoli e per la vita che vi può essere solo ed esclusivamente in essi.
È questa l’immagine che Dostoevskij vuole trasmettere di San Pietroburgo: una città fatta di una vasta gamma di lunghe strade, larghi marciapiedi e luoghi diversi tra loro, da quelli che qualsiasi turista amerebbe a quelli più angusti e stretti per chi ci vive, da quelli più inquietanti per un animo tormentato come quello del narratore durante il Mattino a quelli più consolatori e luminosi nonostante la nebbia e le nuvole di pioggia, dal teatro dell’opera ai mezzanini da affittare a nuovi inquilini, ma, soprattutto, una città che inevitabilmente vive in simbiosi con i suoi abitanti, mutando se stessa pur di andar loro incontro e che durante la primavera sprigiona tutta la sua potenza e si abbellisce grazie alla luce naturale e ai variopinti fiori.
Tuttavia, anche San Pietroburgo è mortale o, probabilmente, lo è proprio perché identica ai suoi cittadini: anche lei subisce i danni causati dallo scorrere del tempo, anche lei invecchia, è sempre più stanca, sbiadita e triste, diventa opaca, viene invasa da ragnatele, le sue case si fanno decrepite, i cornicioni si riempiono di crepe, le colonne perdono vitalità e il colore delle pareti degli edifici la loro compattezza per lasciarsi conquistare da chiazze sporche e sconnesse e nessuno salva Pietroburgo, perché è Pietroburgo a salvare i
suoi abitanti, non il contrario.
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