Percotëansi ‘ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
(VII, 28-30)
Miei balbettanti, con questa citazione, vi do il benvenuto!
Ormai, abbiamo già da qualche giorno intrapreso lo speciale viaggio di Dante, accompagnàti questa volta non solo da Virgilio, bensì da delle volenterose blogger che hanno deciso di approfondirne degli aspetti.
Ieri, abbiamo visitato il terzo cerchio e adesso ci troviamo al punto dove si digrada (VI, 114), “dove si scende”: il quarto cerchio.
Nel VII canto, Dante presenta quattro tipi di peccatori: la prima coppia si trova nel quarto cerchio ed è quella degli avari e dei prodighi.
Perché chi non ha voluto mai spendere il proprio denaro in vita e chi l’ha sperperato del tutto si trovano a condividere la stessa pena? Scopriamolo un po’ per volta!
Pluto (o Plutone)
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»
(VII, 1)
Come preannunciato nel VI canto, ad accoglierci – ma neanche tanto – nel quarto cerchio c’è Plutone, demone che non aspetta mezzo secondo per inveire contro il poeta, tentando di bloccargli il passaggio.
Questo verso è tutt'oggi oggetto di studio dei più rinomati linguisti del mondo, che si interrogano sul suo significato. Da “O Satana, o Satana, ahimè!” a “È la porta di Satana, è la porta di Satana, fermati!”, le interpretazioni sono molteplici e diverse tra loro, ma lo scopo è comune a tutte: Plutone vuole cacciare Dante.
Non è il primo demone che tenta di impedire il proseguimento di questo viaggio e Virgilio lo metterà a tacere in parte auto-citandosi – riprendendo le parole già rivolte sia a Caronte che a Minosse – e in parte citando questa volta anche l’arcangelo Michele, colui che sconfisse gli angeli caduti e lo stesso Lucifero.
Tuttavia, è un’altra frase di Virgilio a interessarci e a farci capire il perché della presenza di Plutone.
«Taci, maledetto lupo!»
(VII, 8)
Ricordate le tre fiere nella selva oscura? Una di esse era proprio la lupa, l’allegoria dell’avarizia, ma perché Plutone dovrebbe essere associato ad un lupo avaro?
Facciamo un passo indietro e riprendiamo un po’ di mitologia greca e latina.
Lo stesso nome Plutone può essere interpretato in due diverse maniere ed entrambe valide: nella mitologia greca, Pluto era il dio delle ricchezze, mentre, in quella latina, Plutone (in latino e anche nel volgare dantesco, Pluto) diventa il corrispettivo del greco Ade e, quindi, il dio degli Inferi.
Il demone presente all’entrata del quarto cerchio, di conseguenza, è allo stesso tempo degno custode di una parte dell’Inferno e emblematico rappresentante delle due specie di peccatori qui presenti, unite da un fattore comune: la ricchezza.
La ricchezza è il vero male?
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fïera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ‘l mal de l’universo tutto insacca.
(VII, 13-18)
Davanti alle parole di Virgilio, Plutone si accascia come fanno le vele gonfie allo spezzarsi dell’albero maestro e i due poeti riescono finalmente a riprendere il loro cammino, scendendo dove "è racchiuso tutto il male dell’universo".
Le anime dannate di questo cerchio si sono macchiate di due peccati di incontinenza guidati dal falso idolo del denaro.
Probabilmente saprete già che, durante il Medioevo, l’usura era considerata – per svariati motivi – uno dei peccati più gravi, lo sterco del diavolo: nei Vangeli, più di una volta viene ribadito che per i ricchi sarà molto difficile entrare in Paradiso.
Se pensiamo agli avari, questa teoria fila che è una meraviglia, ma allora perché i prodighi, che non accumulano mai più di un soldo, vengono puniti insieme alla loro antitesi?
Anche questa volta, è Virgilio che ci aiuta a capire.
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sí de la mente in vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.[…]»
(VII, 40-42)
Sia gli avari che i prodighi sono stati guerci in vita.
Entrambi non hanno saputo vedere con lucidità e vivere seguendo la retta via, seppur in modi opposti.
Se gli avari hanno tenuto troppo stretto il denaro, i prodighi l’hanno gettato via senza ritegno. In ambo i casi, non si è avuta la giusta misura.
Il vero problema, il vero male da punire non è la ricchezza: non tutti i ricchi sono peccatori, ma sono resi facilmente ciechi dal denaro e solo l’aldilà riesce a far veder loro il vero volto della ricchezza.
Come anche in altri casi, Dante svela, quasi smaschera quegli aspetti della vita terrena che si mimetizzano e difficilmente si identificano come peccati. In questo caso, la ricchezza intesa come l’incapacità di gestire in maniera equilibrata i propri averi e di avere una giusta concezione di dare e ricevere è presentata come un ostacolo, come un peso e nel vero senso della parola.
Una pena… pesante
Vi ripropongo la prima citazione per iniziare a spiegarvi la pena sofferta in questo cerchio.
Percotëansi ‘ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
(VII, 28-30)
Gli avari e i prodighi sono destinati in eterno a percorrere due semicerchi e a insultarsi e rinfacciarsi i rispettivi peccati nei due punti d’incontro, il tutto mentre portano al petto un grosso peso.
Ho sempre considerato i due punti d’incontro una metafora dei due aspetti comuni che essi condividono: entrambi sono stati incontinenti in vita, entrambi sono stati schiavi del denaro.
Rileggendo il canto per questo evento, però, ho trovato un’altra possibile accezione: i due punti simboleggiano il dare e il ricevere ovvero le due azioni diametralmente opposte – e per davvero, visto che i due gruppi formano insieme un cerchio – che caratterizzano i due peccati.
Allo stesso tempo, entrambi i gruppi di anime hanno ricevuto, all’arrivo nell’aldilà, un peso da trasportare fino alla fine dei giorni, continuando per sempre a dare insulti a quelle che sono le anime che hanno vissuto una vita opposta alla loro.
È evidente come Dante si sia servito ancora una volta della legge del contrappasso per questa pena: per analogia per gli avari e per opposizione per i prodighi, essi devono tenersi stretto al petto il loro unico avere, il grosso macigno che continuano a trasportare senza alcuno scopo vero e proprio.
Questa è una cosiddetta impresa sisifea e si ispira, appunto, al mito di Sisifo.
Sisifo e la sua pena eterna
Sisifo è forse tra i personaggi più astuti e ingannatori di tutta la mitologia greca: dopo una serie di problemi risolti in maniera furba e scaltra, Sisifo attira l’attenzione di Zeus e non in maniera positiva.
L’ira porta il padre degli dèi a incaricare Ade – e per lui Thànatos – della morte di Sisifo, ma questo riesce a ingannare in un primo momento Thànatos (la Morte) e, una volta giunto finalmente negli Inferi, persino Ade e sua moglie Persefone, riuscendo a fuggire.
Questo affronto, però, non rimane impunito.
Sisifo, quando la Morte lo prende con sé per cause naturali, non è stato dimenticato da Zeus, che gli impone una pena molto simile a quella che Dante riserverà alle anime del quarto cerchio.
Sisifo dovrà spingere in eterno un masso dalla base alla cima di un monte, senza alcuno scopo se non quello di ispirare il più sommo dei poeti italiani.
I volti ignoti del quarto cerchio
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni.[…]»
(VII, 52-54)
Nonostante il grande numero di anime presenti nel cerchio, Dante non riesce a riconoscere nessun volto noto tra loro, solo che gli avari, a sinistra, sono chercuti.
I chercuti sono coloro a cui hanno conferito la tonsura ovvero il rito di rasatura circolare dei capelli che segnava il passaggio dallo stato di laico a quello di chierico. Dante li inserisce tra gli avari, poiché, nonostante dovessero essere delle guide spirituali slegate dai vizi umani, hanno creduto di trovare la propria felicità nel denaro.
Durante la loro vita terrena, la loro anima si è macchiata così tanto che, nell’Inferno, diventano irriconoscibili; sono stati così ciechi che non sono riusciti a far nulla che li rendesse degni di essere visti e ricordati.
Come gli avari e i prodighi disconobbero il valore delle cose, così Dante li disconosce quando li incontra, anche se, a detta di Virgilio, ne riconoscerebbe tanti, se solo fosse possibile.
Vano, quindi, resta il tentativo di dar loro un qualche tipo di rivalsa tanto quanto vana è la compassione che Dante prova per loro.
Il loro destino è quello di presentarsi al Giudizio Universale con i pugni chiusi gli avari e i capelli tagliati i prodighi.
La poetica dantesca rimane quindi estremamente visiva, ma è il suo carattere fonosimbolico che prevale in questo canto: non ci sono onomatopee, ma le parole si compongono di suoni duri, pungenti, aspri e taglienti.
A partire da aleppe fino alle rime sozzi-cozzi-mozzi, tocche-sciocche-‘mbocche e sepulcro-pulcro-appulcro, la lettura – specialmente se fatta ad alta voce – traduce immediatamente la particolare condizione spirituale di queste anime.
Nemmeno tutto il denaro del mondo potrebbe mai salvarle.
Bonus: la Fortuna
«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
(VII, 67-69)
La visita al quarto cerchio è l’espediente giusto per Dante per chiedere a Virgilio cosa sia questa Fortuna che regola tutti i beni del mondo.
Se, nella mitologia greca, la Fortuna era una dea che gestiva il destino di una città in base non solo alla casualità, ma anche all’inevitabilità, le parole di Virgilio donano una nuova visione di essa.
La Fortuna è un’intelligenza celeste preposta da Dio per gestire quelle che sono le cose mondane e distribuirle secondo il suo volere, un volere che nessuno può conoscere né contraddire o impedire.
Nonostante sembri un’entità negativa e casuale, è beata in Paradiso e il suo modus operandi è giusto e logico, ma semplicemente non di competenza degli umani.
Il suo vero compito è quello di educare l’umanità, facendole capire, spostando le ricchezze da uno all’altro, che la ricchezza non è qualcosa di permanente e faremmo bene a non legarci troppo ad essa.
Così come la ricchezza, anche la vita non è nostra, ma è un dono che ci è stato offerto e che dobbiamo valorizzare.
La Fortuna perde così la sua accezione di dea bendata per poter guadagnare quella di intelligenza dalla vista perfetta che fa comprendere a Dante, con la morte di Beatrice e l’esilio da Firenze, quale sia il vero valore delle cose.
Termino qui il mio approfondimento su questa immensa e stupenda Opera: sicuramente, c'è ancora altro da scoprire, significati nascosti da trovare...
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